La diffusione a livello globale del virus Covid-19 ha fatto sorgere diverse questioni, tra le quali figura anche quella relativa alla possibilità di pubblicare o meno i dati personali dei soggetti contagiati, chiedendosi se ciò risponderebbe al diritto di cronaca o se, invece, rappresenterebbe una violazione del diritto alla riservatezza.
Quest’ultimo, anche conosciuto come diritto alla privacy, ha assunto negli ultimi anni un’importanza sempre maggiore all’interno della nostra società, considerato che la rapidità dell’evoluzione tecnologica comporta, inevitabilmente, una maggiore condivisione e raccolta di dati sensibili.
Il diritto alla riservatezza è, infatti, riconosciuto come diritto fondamentale da numerose fonti normative, tra cui l’art. 2 Cost., gli articoli 8 e 10 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo e l’art. 78 della Carta di Nizza, le quali lo qualificano come quel diritto posto a tutela delle situazioni di natura strettamente personale, che soltanto il protagonista può scegliere di rendere note.
Nel nostro ordinamento la sua disciplina è affidata fondamentalmente alla Codice della Privacy, introdotto dal d.lgs. n. 196/2003, e sostituito, dal maggio 2018, dal Regolamento UE n. 679/2016, Regolamento generale sulla protezione dei dati, cosiddetto GDPR.
È, tuttavia, lo stesso GDPR a prevedere espressamente delle deroghe al diritto di riservatezza. L’art. 85 prevede, infatti, che “gli Stati membri, al fine di conciliare la protezione dei dati personali con il diritto alla libertà d’espressione e di informazione, possono prevedere delle deroghe al trattamento dei dati personali per scopi giornalistici o di espressione accademica, artistica o letteraria”.
Un’altra deroga è, poi, prevista dall’art. 9, par. 2, lett. i, il quale, con specifico riferimento ai dati personali relativi allo stato di salute di una persona, stabilisce che si possa contravvenire alla tutela della riservatezza del singolo “per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, quali la protezione da gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero o la garanzia di parametri elevati di qualità e sicurezza dell’assistenza sanitaria e dei medicinali e dei dispositivi medici, sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri che prevede misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti e le libertà dell’interessato, in particolare il segreto professionale”.
Dalle norme di legge citate si può, dunque, ricavare la possibilità di sacrificare il diritto alla riservatezza, riconosciuto al singolo individuo, in nome del generale diritto di cronaca, sancito dall’art. 21 Cost. e dall’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Proprio da tale circostanza è nata la questione relativa alla possibilità o meno, per il giornalista, di rendere pubblici i nomi dei contagiati da Coronavirus.
Occorre, sul punto, sottolineare che l’attività giornalistica, nonostante goda già, di per sé, di un regime particolare in ordine al trattamento dei dati personali, che le consente di diffondere le generalità di una persona anche in assenza del suo consenso, si deve, in ogni caso, svolgere nel rispetto del principio di essenzialità. Ciò significa che, come previsto dall’art. 6, all. 1, del Testo Unico dei doveri del giornalista, la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale può violare il diritto alla riservatezza, soltanto qualora ciò risulti essere indispensabile, in ragione dell’originalità del fatto o dei modi in cui è avvenuto, oppure della qualificazione dei protagonisti.
La stessa Corte di Cassazione, più volte chiamata a pronunciarsi in ordine alle condizionila cui sussistenza renda legittimo l’esercizio del diritto di cronaca, ha stabilito che esse sono rappresentate dai requisiti di verità, pertinenza e continenza. Il fatto narrato deve, dunque, essere, innanzitutto, vero; e tale requisito viene meno anche qualora, pur essendo veri i fatti riferiti, ne vengano taciuti, anche colposamente, degli altri strettamente collegati ai primi. Quanto, poi, alla pertinenza, essa impone che i fatti narrati debbano rivestire un interesse pubblico. È, infine, richiesta la continenza, ossia il rispetto dei requisiti minimi di forma, senza fare uso di espressioni denigratorie ed eccedenti il diritto di cronaca e di critica.
Alla luce di tali elementi, considerato che la diffusione dei dati personali dei contagiati da Covid-19 risponderebbe senza dubbio all’interesse pubblico, la loro pubblicazione dovrebbe risultare lecita anche senza il preventivo consenso del diretto interessato.
È, tuttavia, necessario evidenziare come altre disposizioni pongano ulteriori limiti. È il caso dell’art. 10, all. 1, del già citato Testo Unico dei doveri del giornalista che, proprio in relazione al rispetto della dignità delle persone malate, impone che il giornalista, nel far riferimento allo stato di salute di una persona determinata, sia essa identificata o, comunque, identificabile, ne rispetti la dignità e il diritto alla riservatezza, soprattutto qualora si tratti di malattie gravi o terminali.
Va, peraltro, osservato come, già in passato, sia stata seguita proprio quest’ultima via, considerando preminente il diritto alla riservatezza del malato. È quanto avvenuto, ad esempio, nel 2005, quando il Garante della Privacy, in relazione al diffondersi del cosiddetto “morbo della mucca pazza”, aveva disposto il divieto di diffusione, anche tramite siti internet, delle generalità di un soggetto che si sospettava essere stato contagiato.
Si deve, quindi, concludere, che, nonostante l’emergenza dettata dal diffondersi del Coronavirus abbia già determinato la compressione di alcune libertà fondamentali, prima tra tutte quella di movimento, non sembrano, ad oggi, esserci ragioni sufficienti per derogare al divieto di diffusione dei dati personali dei soggetti contagiati, ancor più all’interno di una società di diritto, come la nostra, la quale impone che la compressione delle libertà avvenga in modo proporzionale e adeguato ai principi e valori di una società democratica.
cit. Brocardi